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Che bella giornata speriamo che non piova

Che bella giornata speriamo che non piova

Gabriele Corsi

2024

Come è strano e complicato a volte definirsi, guardandosi attorno, guardandosi indietro, guardandosi dentro, guardandosi nello sguardo degli altri.


In questo racconto Gabriele Corsi prova a definire l’uomo che è oggi, la persona che è diventata lungo il corso degli anni, partendo dal suo essere stato figlio fino al suo odierno essere padre, o meglio al suo essere doppiamente padre "...l’uomo che eri. L’uomo che sono..." perché, nello svolgimento del  lungo monologo in cui è strutturato il racconto, si trova al cospetto di suo padre "...il vero, struggente protagonista di questo racconto, seppure apparentemente più appartato rispetto a tutti gli altri personaggi, di certo più rumorosi ed eccentrici...", colpito da una malattia degenerativa che lo costringe all’isolamento "...Mutacismo completo, Atrofia fronto temporale... quanto sanno essere asettiche le parole..." al silenzio e al solo ascolto, chissà poi quanto ricettivo si domanda più volte il figlio.


Sapientemente, ma anche con leggerezza, Corsi accompagna il padre, e ci accompagna insieme a lui, in un teatrino di ombre, di ricordi, di apparizioni contenuti all’interno di una struttura di accoglienza per pazienti psichiatrici "...i mattacchioni, come li chiama..." dove si trova a dover svolgere il suo servizio civile, intorno alla fine degli anni novanta. La cooperativa, ripensata nella sua logica dopo il definitivo superamento del sistema manicomiale in seguito alla Legge Basaglia, accoglie oltre ai pazienti  gli infermieri, i medici, i dirigenti, gli obiettori di coscienza i quali vivono ansie, frustrazioni, rabbia, ma anche impreviste soddisfazioni e genuini momenti di ilarità in una variegata e multiforme condivisione di responsabilità, di intensità e di emotività in uno scenario di eroica, viene da dire, improvvisazione. E il nucleo del racconto, la sua materia è proprio simile a questo: la difficoltà, o forse addirittura l’insensatezza nel voler definire con precisione il confine assai labile tra sanità e malattia, tra fragilità (dei pazienti ma anche degli operatori e del giovane Corsi stesso) e certezze "...essere matti fa schifo, afferma un paziente; tanto, tanto, tanto difficile dice Corsi forzando l’ingresso nel mondo racchiuso del padre...", tra un passato che paralizza per sempre in scarni reiterati gesti,  e un altro che semplicemente, inesorabilmente, svanisce nel nulla, come quello nella memoria del padre dell’autore.


Il resoconto di questa importante stagione della sua vita, la descrizione di quell’anno trascorso nella casa-comunità "...chiamata Progetto Antonietta e definita la casa dei matti sulla via in salita..." Corsi lo regala, in un certo senso, al padre, imponendo da subito a se stesso l’uso del presente, per riuscire ad essere ancora figlio e soprattutto perché sa che contemporaneamente è arrivato il momento, che arriva per tutti dice, in cui devi fare da padre a tuo padre, e lo regala anche a chi, leggendolo, scopre quanto complessa e faticosa  possa essere la costruzione di una personalità, altrui o persino la propria, inscindibile tanto dai ricordi, dalle speranze, dalle intuizioni, dalle illusioni, quanto vulnerabile al loro disordine, alla loro imprevedibilità, alla loro volatilità, alla loro crudeltà. In un lungo e dettagliato elenco che stila per suo padre, col sottofondo di una canzone dei Beatles, Corsi rimette assieme "...che poi, se mi guardo indietro, è un po’ quello che ho sempre cercato di fare. Mettere un po’ in ordine, scrive..." immagini più o meno lontane della loro vita familiare, come tante istantanee, o forse come stralci di paesaggi intravisti da un finestrino: gesti, incontri, giudizi, attese, aspettative "...Noi che dobbiamo dimostrare sempre qualcosa...", delusioni ma anche oggetti, una barca, un divano, il modellino di un aereo, una cravatta "...io che imparo a farmi il nodo da solo..." o semplicemente considerazioni "...Tutto è importante… niente è più importante..." che fissano, o ambiscono a farlo, il loro rapporto, come qualsiasi rapporto, nella sua essenza più profonda e che l’autore cerca di rivedere, di rivederne qualche frammento almeno, nello sguardo quasi assente del padre.


Che bella giornata, speriamo che non piova ripetutamente canticchiato da una delle pazienti della struttura è il leitmotiv del racconto "...ma ce ne sono tantissimi altri scanditi di volta in volta dagli ospiti della casa-famiglia in forma di mugugni, monosillabi, filastrocche, nenie, trivialità, sentenze…" tramite il quale veniamo condotti lungo un percorso, quello di chi accompagna e di chi viene accompagnato,  del quale è certamente difficile definirne la direzione, ovvero se a ritroso o in avanti o se addirittura privo di un vero e proprio orientamento e che si rivela sicuramente ineluttabile  e doloroso e però, a dispetto delle premesse, delle contingenze e soprattutto degli esiti, costruttivo e a suo modo esemplare. 

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