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Familiar Touch

Familiar Touch

Anno di uscita 2024

Il film inizia con la protagonista, Ruth, inquadrata di spalle mentre rovista nel suo guardaroba cercando un abito da indossare e si chiude con Ruth rivolta verso gli spettatori mentre una assistente la aiuta con discrezione ad indossare una veste. E se il film trattasse dell’apparire (di come appariamo a noi stessi, di come appariamo agli altri, di come agli altri vogliamo apparire)? O se invece trattasse dell’essere, delle azioni che compiamo, delle scelte che facciamo, dei desideri che realizziamo e di quelli che invece si perdono? O se trattasse più semplicemente del legame intrinseco tra questi due assiomi (un legame fatto di sguardi, di sorrisi accennati, di espressioni corrucciate, di silenzi) e del suo sciogliersi e del suo riallacciarsi in forme diverse?


Familiar touch, il bellissimo film di Sarah Friedland (che lo ha anche scritto e co-prodotto, e che ha lavorato lei stessa come caregiver), parla in maniera essenziale, pertinente e delicata del momento drammatico in cui Ruth, affetta da demenza ma apparentemente ancora abbastanza autonoma, viene accompagnata da suo figlio Steve (che lei, seduti l’una di fronte all’altro, non riconosce) in una residenza assistita a Pasadena e il racconto prosegue lungo il periodo del suo inserimento e dell’adattamento alla comunità e ai suoi ritmi (è importante sottolineare che Ruth, dopo una precedente visita alla struttura, aveva comunicato al figlio la sua volontà di esservi trasferita qualora le sue condizioni di salute lo avessero imposto). Seppure raccontata da vicino e passo per passo attraverso gli ambienti dell’istituto la storia di Ruth si scompone in molteplici sguardi — sguardi reciproci – di volta in volta più ravvicinati o più discreti. Ecco dunque un susseguirsi di volti, il suo e quelli degli altri pazienti, e di sguardi, alcuni molto lontani e distratti altri concentrati su piccole, urgenti realtà, e i volti degli operatori, i loro modi premurosi, i loro sorrisi rassicuranti, la loro severità (una umanissima severità): spicca su tutti il volto di Vanessa, la caregiver assegnata a Ruth, variamente configurato in espressioni protettive e materne, a dispetto della sua giovane età.

Variando i toni e modulando gli spazi, la regista tiene insieme tanti aspetti della vita di Ruth attraverso pochi gesti e improvvisi ricordi, come quello delle sue amate ed elaborate ricette che recita a voce alta e che riesce addirittura a mettere in pratica, oppure attraverso personalissimi esercizi di riproduzione della realtà (quasi al buio, seguiamo il tocco di Ruth sulle forme familiari di alcuni ortaggi per provare a ridare loro un nome): così, attraverso sporadiche quanto precise ricostruzioni l’essenza della protagonista viene rimodellata, in una forma sicuramente ridotta rispetto al passato ma senz’altro vera, ancora tangibile.

Con inquadrature minimaliste e raffinate la regista evoca l’irreversibilità di una condizione drammatica senza mai indulgere in sentimentalismi e, valorizzando lunghi silenzi, ne sottolinea la densità e l’emotività: inoltrandosi negli ambienti della casa di riposo ci viene mostrata la quotidianità nella quale Ruth si troverà a dover vivere l’ultima parte della sua vita e nella quale a volte inciampa: sono infatti assai dolorosi i rari momenti di consapevolezza che assalgono Ruth e che scuotono violentemente le sue fragili geometrie (i percorsi e gli spazi gestiti giorno per giorno dagli operatori) così come sono lievi e inaspettati i momenti ancora più rari di spensieratezza.


Parlando del film nel corso di una presentazione l’attrice protagonista, la bravissima Kathleen Chalfant, ha raccontato di essersi fatta ispirare per il suo personaggio dalla vicenda di una sua amica affetta da Alzheimer e di essere stata molto colpita da come i suoi familiari, accompagnandola  lungo il  decorso della malattia, parlassero di lei al passato: il nucleo di questo film sembra essere dunque questo,  il tempo, e l’essere e l’apparire sono i due aspetti che lo definiscono, allentandolo o rendendolo ineluttabilmente concreto. Ed è il figlio di Ruth a mostrarcelo chiaramente, gestendo quello che rimane, anche materialmente, di una esistenza e cercando di capire, di definire, quello che questa esistenza, ancora “esistente” come ha specificato la Chalfant, esprime nel presente: ancora una volta è un abito, un cappotto appartenuto a Ruth, a far percepire la verità del tempo, adattandosi al corpo di una sua giovane nipote, figlia di Steve. Come appunto ci dice il titolo del film, è grazie al contatto familiare (e alla familiarità di un contatto altrui) che la fragile materia colpita dalla malattia può trovare sollievo, e nel tocco di una carezza, di uno sguardo, di una immaginazione condivisa (in una delle scene più belle ed esemplari del film Ruth e un’altra paziente mimano con infantile complicità giochi virtuali) può recuperare, anche soltanto per pochi istanti, individualità, desiderio, volontà.

Con rara essenzialità questo film descrive il dramma dell’Alzheimer attraversando la soglia penosa degli irreversibili mutamenti (personali, affettivi, professionali) facendo però intuire con accenni molto precisi la pienezza e la ricchezza nella vita di chi è poi colpito dalla malattia e di chi gli è vicino, e lo assolutizza interrompendo la narrazione prima di abbandonarsi all’inevitabile esito della vicenda, non per pudore o rassegnazione ma per lucidità formale e integrità morale.

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